Le ultime settimane hanno visto la Libia al centro dell’attenzione dei media internazionali a causa delle inondazioni causate dalla tempesta Daniel, nonostante la scarsa copertura mediatica nei giorni immediatamente successivi agli eventi. Le vittime, secondo le stime diffuse, sarebbero oltre 11mila, sebbene l’Onu per il momento abbia confermato la morte di circa 4mila persone, mentre le ricerche continuano con la speranza di riuscire a salvare le circa 10mila persone che mancano ancora all’appello. A queste si aggiungono, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), 43mila persone sfollate dal luogo di residenza. Se, da un lato, la devastazione mette in luce la portata e l’intensità della crisi climatica, dall’altro viene evidenziata la fragilità del paese maghrebino. Una fragilità che si rispecchia nel diffuso abbandono delle infrastrutture, da occidente a oriente, indipendentemente dal leader politico alla guida. Il numero delle vittime e il disastro complessivo sembrano aver avuto come risultato un raro momento di unità – molto breve – tra le due fazioni rivali che si contendono il potere nazionale. Infatti, gli apparati governativi di tutto il paese si sono attivati per un immediato soccorso e intervento nelle aree colpite. A questi si aggiungono gli aiuti umanitari internazionali che stanno arrivando da più parti.
Oltre un decennio di caos e conflitti nell’ex colonia italiana ha lasciato le infrastrutture in decadimento, le istituzioni statali svuotate e deboli e una nazione politicamente divisa tra le fazioni dell’Est e dell’Ovest. Questi fattori minacciano di complicare sia la risposta all’emergenza che gli sforzi di recupero. Le dighe crollate, Abu Mansour e Derna, erano state costruite negli anni Settanta sopra Wadi Derna, che divide la città. Abu Mansour, a circa 14 km dalla città, era alta 74 metri e poteva contenere fino a 22,5 milioni di metri cubi d’acqua; la diga di Derna, conosciuta anche come Bilad, era molto più vicina alla città e poteva contenere circa 1,5 milioni di metri cubi d’acqua. Infrastrutture con circa cinquant’anni di vita che non ricevevano manutenzione da tempo. Infatti, secondo un report di un’agenzia di audit del 2021, citato da media locali e internazionali, erano stati allocati circa 2 milioni di dollari nel 2012 e 2013 per la manutenzione delle due dighe, senza che ciò avvenisse poi nella realtà. Il premier del Governo di unità nazionale (Gun) di Tripoli, Abdulhamid Dbeibah, ha riconosciuto le difficoltà e i problemi relativi alla manutenzione delle infrastrutture presente oggi in tutta la Libia e ha chiesto di far luce sul crollo delle dighe. Il Gun ha stanziato oltre 400 milioni di dollari per la ricostruzione della città e sono stati inviati aiuti umanitari dalla regione occidentale in direzione della Cirenaica. Nel frattempo, continuano le difficoltà a raggiungere i luoghi principalmente colpiti dal disastro, anche a causa delle divergenze politiche domestiche. Diverse nazioni hanno promesso supporto, ma non è chiaro come verrà distribuito. La maggior parte dei paesi che hanno fornito aiuti alla Libia li hanno inviati a Bengasi, nonostante l’amministrazione di Khalifa Haftar non sia riconosciuta da tutta la comunità internazionale. Proprio sulla gestione della crisi da parte dell’amministrazione orientale si stanno alzando molte critiche. Infatti, il passato violento di Derna e il difficile rapporto con Haftar si sono rivelati letali per le sorti della città, che viveva in una sorta di isolamento all’interno della regione. A ciò si aggiunge l’impreparazione e la scarsa efficienza da parte delle istituzioni. L’uomo forte della Cirenaica ha preso in mano la gestione degli aiuti umanitari internazionali attraverso gli uomini del suo Esercito nazionale libico (Lna), di fatto ostacolando i soccorsi e gli interventi degli operatori umanitari. Al contempo, Saddam Haftar, figlio del feldmaresciallo, ha assunto l’incarico di responsabile del comitato di crisi di Derna. Tutto ciò è stato visto dalla popolazione come un ulteriore “furto” e danno alla società civile.
Il malcontento ha portato gli abitanti di Derna a scendere in piazza per chiedere risposte dopo il dramma dell’alluvione e protestare contro il malgoverno e la corruzione dei funzionari politici in carica da anni. Lo scopo era quello di capire perché gli avvertimenti sulle strutture sono stati ignorati e cosa sia successo ai milioni di dollari stanziati per la loro manutenzione. Durante le manifestazioni è stata incendiata anche alla casa del sindaco della città libica, Abdulmenam al-Ghaithi, che sarebbe stato sospeso dal suo incarico. La risposta dell’amministrazione non si è fatta attendere. Infatti, nelle ore successive alle proteste, è stato interrotto l’accesso a internet e alla linea telefonica (servizio ripristinato dopo due giorni), è stata evacuata la città ed è stato vietato l’ingresso a tutti i giornalisti internazionali. Un modo, secondo diversi osservatori, per silenziare l’intera città e “gestire i flussi di informazioni” provenienti da e verso di essa, così come espresso dal portavoce del comitato di crisi.
Nel frattempo, è arrivato un ulteriore allarme: le inondazioni potrebbero aver portato alla luce mine terrestri inesplose e altre armi lasciate dal conflitto militare che potrebbero causare ulteriori vittime. La questione delle mine è un problema che lo Stato libico si porta dietro da anni. Nei mesi scorsi, la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) e il Servizio per l’azione delle Nazioni Unite contro le mine (Unmas) avevano ricordato come la questione delle mine sia ancora aperta nel paese meghrebino e come fossero necessari ulteriori sforzi per risolverla nel breve periodo. Nel solo 2022 sono state 19 le persone morte a cause degli ordigni esplosivi, tra cui 14 bambini. Infatti, nonostante i notevoli sforzi dei partner per le operazioni di sminamento negli ultimi dieci anni, più di 15 milioni di metri quadrati sono ancora contaminati dai residuati bellici rimasti sul territorio libico. Nel 2022, nell’ex colonia italiana sono stati rimossi 27.400 ordigni esplosivi a Tripoli, Misurata, Bengasi e Sirte. Inoltre, la Libia non ha aderito al Trattato per la messa al bando delle mine e i registri – che, normalmente, sono conservati dalle autorità nazionali – non sono aggiornati e disponibili a causa delle divisioni politico-amministrative presenti nel paese.
Infine, resta l’irrisolvibile rebus politico. Gli eventi che hanno colpito la Cirenaica sembrano avere, per il momento, fatto dimenticare il processo politico in corso. Le due amministrazioni oggi attive in Libia, evidentemente, hanno tratto (e traggono ancora oggi) vantaggio della divisione del paese, perseguendo difatti ricchezza e potere/controllo, con una non velata mancanza di rispetto per la popolazione. In molti temono oggi che gli attuali leader politici possano sfruttare gli eventi per gestire ulteriori fondi e rallentare, ancora una volta, quel processo che dovrebbe concludersi con le elezioni. Dal cessate il fuoco – raggiunto tra le due fazioni rivali nell’ottobre del 2020 – la priorità è stata data al mantenimento di uno status quo che si è basato su una “pace” fittizia, necessaria per quella stabilità richiesta da partner e comunità internazionale, mentre scarsa attenzione è stata data alla gestione e alla responsabilità dei decisori politici che hanno guidato il paese negli ultimi anni. L’assenza di istituzioni unificate e la perenne instabilità politica hanno avuto, come conseguenza, la lotta tra le élite per l’accaparramento delle ricche entrate derivanti dalle risorse petrolifere, con un evidente sistema corrotto che vede funzionari pubblici servire sé stessi anziché lavorare per il bene della popolazione libica.
Mario Savina
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